Appunti per una biografia di Dario Verda
dal libro 'Dario Verda sculture'

“Forgiar la materia così pur l’intelletto”

“Obtorto collo si menda opera ostento” (Malvolentieri mostro quest’opera così imperfetta). La citazione all’ingresso dello “sgabüzin” di Manno, zona Al Cairello, è impegnativa ed equivale un po’ a mettere le mani avanti, ma per gli amici si può fare un’eccezione. In effetti Dario Verda lavora appartato, pochi sanno di questo suo hobby, anzi qualcosa di più, una vera passione e forse, sotto sotto, il bisogno di esprimersi compiutamente. Lo fa in forma che oggi si direbbe integrata, scritti e sculture. Il che significa citazioni, massime e aforismi, meglio se in dialetto, battute fulminanti, motti d’umorismo. E poi con il suo modo di essere, cordiale e riservato, che dà spazio all’interlocutore. Ma ancor di più con la scultura, decine e decine di opere per la massima parte in ferro – e la serie continua – con cui dà forma a pensieri e sentimenti, a osservazioni e valutazioni, insomma alla sua visione delle cose.

Il fatto è che a Dario Verda piace questo modo di affrontare le cose. Fin dalla giovinezza, dai tempi di Campione (è nato nel 1936), allora villaggio di fornaci e terrecotte, oltre che naturalmente di pescatori. Pescatore era ancora il nonno Giuseppe, per le ceramiche bisogna tornare ai bisnonni, che tenevano negozio al centro del paese. Poi con l’arrivo del casinò tutto è destinato a cambiare. Non però la famigliarità con il Ticino, con Bissone, Melide, Maroggia, i paesi rivieraschi e Lugano, dove Dario Verda frequenta l’istituto Elvetico prima di recarsi a studiare “in denta”, oltre San Gottardo, come i ticinesi di buona famiglia lui a Ilanz e Briga. L’ambiente era quello, di qua e di là del lago anche quando andava forte in bicicletta, e infatti ha corso con il Velo Club di Mendrisio e Lugano, vincendo una buona dozzina di gare. Nel ’68 si è sposato ed ha due figli.

La ditta, il lavoro, questa voglia-bisogno di esprimersi. A Dario Verda è sempre piaciuto, ha sempre avuto un po’ bisogno di questo che continua a chiamare Hobby ma in verità è un suo modo d’essere. Succedeva già nei decenni in cui ha diretto ed ingrandito l’azienda di famiglia, attiva nell’edilizia, dov’era subentrato al padre Augusto (la madre era una Figini di Gentilino). Poco tempo a disposizione ma la sera, “quando rientravano veicoli ed operai” o nei fine settimana qualche oretta la trovava per assemblare, lavorare il ferro che aveva messo da parte. “Mi piace far rinascere in altra forma i pezzi di ferro, pezzi di macchinari da scavo ormai inservibili”. La sua accademia è stato il cantiere, anche per via della sua spiccata manualità, della capacità di metter mano alle cose, di aggiustare. Piacevano a lui, erano apprezzate dagli amici quelle prime sculture, qualcuna cominciava a farsi vedere, come “Fonte di vita”, la grande catena esposta fuori dalla Banca Stato di Agno e qualche anno dopo “Tardiva virilità” nel parco delle sculture del San Grato a Carona.

Non gli piace enfatizzare, preferisce dire che sono cose per gli amici, che infatti si ritrovano tra la buona tavola e la musica, folclore ticinese, piccolo jazz, un po’ tutti i ritmi, lui con l’organino a bocca e la pianola. Preferisce dire che con la scultura ha voluto dare una forma interessante, significativa e un po’ diversa al suo mondo. “Un modo anurmal, alteraa da vedè quel che ga circunda/ un sistema per truvà quel piasè che inunda”… Un po’ anche per sfidare se stesso per vedere dove conduce questo modo un po’ giocoso di affrontare le cose, che cammin facendo gli si è rivelato sempre più stimolante. Intanto è rimasto interessato, curioso verso Gallerie e Musei, si è tenuto aggiornato sul lavoro degli altri. Ancor più dal ’96 quando ha ceduto la ditta e finalmente ha potuto dedicare più tempo al piacere dello scrivere e del lavorare il ferro, dopo aver sistemato il vecchio fienile della masseria Al Cairello, lo “sgabüzin” dove fa le sue cose con calma, fuori dalla ressa, in quel rifugio tra prati e bosco.

Lavora il ferro perché lo conosce bene, gli dà del tu da una vita, ma ugualmente ha iniziato con prudenza, anzi con rispetto, prima ad inciderlo, poi ad assemblarlo e finalmente sviluppando un modo tutto suo di tradurre in opera il lato nascosto delle cose. Sempre seguendo il filo dei propri pensieri, senza lasciarsi influenzare dalle tendenze che vanno per la maggiore. I soggetti da tradurre nel ferro sono lì da prendere, li offrono la vita e l’abitudine di guardare alle cose con una certa attenzione ai dettagli, alle espressioni, al risvolto magari meno esibito ma più vero dei tipi e delle situazioni. Talvolta già il pezzo di ferro suggerisce un possibile tema di espressione. Del ferro gli piace il peso, la durezza, vien da dire la personalità. Al punto che quello dello scultore gli è diventato un lavoro serio, quasi un secondo vestito perché portato avanti con consapevolezza, con coerenza. Vien da dire con serietà, gran serietà proprio per la capacità di alimentare il lato creativo dell’osservazione attenta ed arguta, sorridente.

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