Dalmazio Ambrosini
dal libro 'Dario Verda, sculture'

Dario Verda e il giocoso teatro della vita

Lungo la strada dell’attesa e della per quanto tacita preparazione, Dario Verda è andato perfezionando il suo modo di esprimersi, di guardare le cose. I tedeschi lo chiamano Weltanschauung, con concetto che dalla filosofia è stato applicato  ad altri campi, in primis alla storia dell’arte. Possiamo tradurla con visione o concezione del mondo, ossia della realtà complessiva, esteriore ed interiore, in cui siamo immersi visionando la sua opera, tappa dopo tappa, gradualmente si vede questo concetto prendere forma. Tanto che, di immagine in immagine, di oggetto in oggetto ci si rende conto, non senza una meravigliata sorpresa, di ritrovarsi dinanzi ad un’unica, diffusa opera nella quale le singole realizzazioni sono altrettante tessere che vanno a comporre un mosaico complessivo. Un’opera in progress lungo un continuo realizzarsi secondo precisi stilemi, secondo caratteristiche tipiche.

Mani capaci – Il pensiero, dicevo. Ma la linea di pensiero si realizza grazie al carattere, alla perizia, ossia alla straordinaria manualità. Mani capaci, intelligenti, in grado di muovere, plasmare, modellare, modificare e intervenire a ragion veduta sui materiali, in esatta sintonia con le intenzioni. Mani capaci di utilizzare attrezzi e macchinari che appartengono all’officina ed al mondo industriale. Mani capaci di smontare e di assemblare, di realizzare e azionare meccanismi, infine di compiere alla perfezione le operazioni che concernono la scultura in metallo, dalle lisciature alle varie patinature. Quattro occhi ed ecco il risultato compiuto e corrispondete all’idea. Ora è evidente che anche questa abilità manuale rientra nel novero dell’Ars e della Téchné, ossia della capacità di fare, di produrre bene. Conferisce all’opera un completamento di tipo artigianale che è insito nel concetto classico di artista.

Sano realismo – Nell’opera di Dario Verda troviamo alcuni riferimenti essenziali, che appartengono tanto alla linea di pensiero quanto alla capacità. Il primo è dato da un sano realismo, per cui le cose (le situazioni, le visioni) mantengono un aggancio di fondo con la realtà. Conservano una loro riconoscibilità, si inseriscono in un bel preciso contesto fondato sulla cultura popolare, o se vogliamo sulla civiltà rustica, colta però da un’angolazione dotta, consapevole. Ossia sottoposta a valutazione, analisi, a critica non accettata supinamente.

 

Il secondo riferimento va alla cultura classica. Potrebbe apparire in contrasto con il precedente, civiltà rustica, ma Dario Verda mantiene nelle sue opere una misura, che tiene agganciata a precise fonti di ispirazione: da una parte alle culture latina e greca (Omero, ad esempio), da cui preleva una serie di citazioni e quindi di concetti; dall’altra al mondo del mito (Icaro) di cui continua a nutrirsi la cultura contadina, conglobandovi nuove aree mitologiche come quella dei grandi testi (Dante e la Divina commedia, ad esempio), delle feste popolari (Calendamarz), delle figure romanzesche (moschettieri) e del mondo religioso (Preghiera, Castità, Tentazione).

Sul filo del gioco – Il terzo riferimento è dato da una gustosa propensione al gioco, alla dimensione ludica; alla citazione, meglio se latina, all’allusione mai greve ma non senza una punta di provocazione; allo scherzo ma anche al sarcasmo, alla dimensione sardonica della vita, alla risata non sboccata ma puntuale. Ecco il divertissement delle espressioni sincopate (la soppressione di una parte della parola o del linguaggio) e della sineddoche, la parte per il tutto (Il pelo) e viceversa. Questa veloce variazione di un ricco vocabolario riguarda non solo parole, detti e proverbi o le espressioni scritte, a volte fulminanti, ma anche proprio la sintassi tecnica delle sculture. Le sue figure non devono essere verosimili, vicine al vero, ma interpretare l’indole dei personaggi raffigurati, per lo più come rappresentazione di una condizione dell’essere – frati, ballerini, innamorati, guerrieri ecc. – lungo una gamma di tipi, atteggiamenti e tic praticamente infinita. In questo gioco entra anche il mondo animale, un amplissimo bestiario per lo più dialettale (l’uroch, la zèca, il linfante) rapportato per solito agli esseri umani, uomo e donna. Ma vi entra anche la dimensione geometrica (rettangolo, triangolo, cerchio) utilizzata tanto in senso espressivo quanto decorativo, come conferma il ricorso a colori smaltati.

Allusioni ben temperate – Nella costante dimensione del gioco campeggia tanta scenografia dell’erotico. La battuta salace ma non troppo ed anzi simpatica, la leggera insinuazione, il corteggiamento appena accennato, l’atteggiamento invitante, insomma i rituali dell’avvicinamento e della confidenza, della conquista amorosa, gentile e non marchiata né tantomeno triviale, di quel gioco di fioretto fatto di sottintesi che si instaura tra uomo e donna ad ogni età e sotto tutti i quarti di luna. Qui il linguaggio di Dario Verda si mantiene leggero, giocoso, accattivante, persino galante lungo tutta una gamma di toni e sfumature; fa sì l’occhiolino ma senza scadere di tono. Tanto nelle sculture quanto nei detti, negli aforismi e nelle poesiole si mantiene in equilibrio sul crinale del buongusto, evitando di scivolare nel pantano. Interpreta tutta una gamma di allusioni senza mai approdare ad un verismo esplicito che sarebbe eccessivo; si avvicina più ai fidanzatini di Peynet e alla loro tenerezza che a tante cronache sboccate nel nostro tempo, televisione compresa.

Senso della misura – Dario Verda non oltrepassa mai la misura, si sofferma sula punta della sottile complicità del gioco. Più della prosa sceglie la poesia, la rima baciata o il verseggiare libero. Tanto che praticamente ogni scultura ha il corrispettivo in una sorta di interpretazione-commento scritto, con cui l’attore sottolinea, evidenzia in bello stile quanto già traspare dalle opere in metallo. I diversi temi non sono realizzati con intenti manieristici o imitativi, ma lungo quella raffigurazione del teatro dell’esistenza che alla fin fine è il grande tema dell’intera opera di Dario Verda.

 

Lunga (e nuova) vita al ferro

La caratteristica costante dell’opera di Dario Verda, ormai ampia e in parte anche storicizzata, è data dall’estensione prospettica. Se tanto l’impianto classico quanto la cultura popolare e rustica sono per così dire la piattaforma di partenza, eccolo poi visitare alcuni dei momenti distintivi dell’arte, moderna e contemporanea. Mantiene il rapporto diretto con la grammatica espressiva della scultura, in particolare con gli esiti più recenti.

Ferri buttati – Partiamo dal materiale, il ferro. Ci riporta lontano, molto lontano, addirittura all’età del ferro, ossia al passaggio dalla preistoria alla storia. Il ferro come materiale quotidiano, emblema del lavoro (la mitica fucina di Vulcano), materiale per gli strumenti più quotidiani, famigliari e casalinghi, ma anche delle armi per la guerra. Il ferro dell’industria, della siderurgia che nell’800 ha fatto fare un balzo sulla scala del progresso. Il ferro delle piccole grande cose d’uso quotidiano, il ferro delle fusioni e delle ferrovie, dei binari della Gotthardbahn. Il ferro così presente nel quotidiano da diventare ad un certo punto invisibile, e così ordinario da poter essere buttato via, superato da altri materiali più lucidi e spettacolari, che pure gli sono figli. Il ferro che invecchia e arrugginisce producendo nel silenzio quella formidabile, morbida pellicola che è la ruggine. Il ferro dimenticato, morto, inutilizzabile, finito nelle discariche.

Ferri recuperati – Dario Verda riprende questo materiale così rappresentativo della civiltà e della memoria là dove è stato gettato nelle braccia d’una lenta, progressiva corrosione, e gli infonde nuova vita. Nuovo destino, nuovo futuro attraverso nuovi significati. Gli cuce addosso un nuovo linguaggio utilizzandolo per le sculture, per l’arte. Lo ruba alla sua vecchia funzione, ormai decaduta, al ruolo che ha interpretato, insomma alla sua vecchia esistenza e alla morte progressiva per consunzione. Lo impiega come materiale d’espressione di situazioni esteriori viste con occhi interiori, tra intelletto ed emozione. Lo nobilita. Oltretutto trattandolo con rispetto, ossia intervenendo il meno possibile, solo per evidenziare questo o quell’aspetto, per una leggera rifinitura, per il lavoro di lima, per la patinatura.

Ferri ringiovaniti – Il ferro nelle mani di Dario Verda riscopre una nuova giovinezza, talvolta addirittura un’infanzia allegra e scherzosa. “Ridentem dicere verum, quid vetat?” (che cosa impedisce di dire la verità con il sorriso?) si chiedeva già il poeta latino Orazio, e anche oggi ogni tanto si sente citare un più popolare “Castigat ridendo mores”, (Con il sorriso sferza i modi di essere). A dire il vero Dario Verda non castiga e non sferza, semplicemente ne fa materia di gioiosa, allusiva comunicazione ammiccando a pensieri nascosti, galanterie ventilate, desideri sottaciuti, piaceri immaginati. Sempre in punta di sorriso, con arguzia, al massimo facendo l’occhiolino.

E talvolta il bronzo – Con il ferro continua il rapporto con la sua precedente esperienza professionale, ma soprattutto si collega a quell’immaginario collettivo, intriso di senso pratico e magari un po’ soffuso di nostalgia, nel quale il ferro riveste un ruolo sostanzioso. Utilizza un materiale importante, serio, straordinariamente utile, che appartiene non solo alla biografia antropologica, cioè alla memoria che abbiamo dentro, ma anche alla biografia individuale, alla vita di tutti noi. Il ferro è il metallo della storia sociale ed economica. Dario Verda nelle sue sculture non evita il bronzo, materiale per eccellenza della storia della scultura, ed anzi ne sfrutta le possibilità di modellazione attraverso il gesso prima della fusione. Anche qui ben utilizzando le sue mani sapienti ed allenate, contando sul fatto che poi il bronzo ben patinato sfiderà il tempo, come nel caso della Lavandaia posata sulla riva si Bissone, in piazza Borromini.

 

Nei panni del recuperante

Ermanno Olmi, il regista dell’Albero degli zoccoli, su sceneggiatura di Tullio Kezich e Mario Rigoni Stern nel 1969 ho realizzato un documentario intitolato “I recuperanti”. Persone che sull’altipiano di Asiago andavano recuperando residuati bellici metallici della grande guerra. A modo suo Dario Verda è un recuperante visto che sceglie e raccoglie ferri vecchi per salvare qualcosa della loro essenza a fini espressivi. Infonde una nuova forma. Ma come? La sua opera, le tipologie degli interventi hanno avuto uno sviluppo graduale, che si può accostare anche sul piano cronologico.

Incisione e assemblaggio – La prima fase è quella dell’incisione. Incidere, graffiare, limare, lavorare il ferro cambiando il meno possibile con pochi segni intelligenti. Interessante è poi la fase dell’assemblaggio, ossia dell’accostare e mettere insieme in modo significativo parti o ferri diversi; cercare la forma voluta e significativa attraverso l’avvicinamento, sia in forma di dialogo che di confronto.

Ready-made – La soluzione più intrigante e, vorrei dire, più in linea con il pensiero di Dario Verda è quella del Ready-made. Ossia del procedimento secondo il quale manufatti d’uso come (tubi, chiodi, viti, chiavi, mollettoni, catene, putrelle, contenitori ecc.) vengono utilizzati in modo diverso da quello che gli sarebbe proprio. Questo procedimento riporta a Marcel Duchamp: ricordate il famoso orinatoio che diventa Fontana? È del 1915, e prima ci sono la Ruota di bicicletta del 19.13 e l’Asciugabottiglie del 1914. Un pisciatoio per uomini, la ruota anteriore di una bici da corsa, quei cerchi asimmetrici da cui fuoriescono tante punte nelle quali vengono infilate le bottiglie per farle asciugare. Tre semplici oggetti d’uso che passando tra le mani dell’artista diventano qualcos’altro nel momento in cui vengono proposti fuori dal loro contesto (la bicicletta, il vespasiano, la cantina) senza che l’artista intervenga minimamente (Ready-made puro) o in modo minimo (Ready-made rettificato). Il valore aggiunto dell’artista consiste nell’operazione di scelta, o anche di individuazione casuale dell’oggetto, di acquisizione e di isolamento dell’oggetto, fino all’intervento misurato.
Questo tipo di operazione che noi riconduciamo a Duchamp è del tutto concettuale e, a ben guardare gli sviluppi dell’arte in quel periodo, prende le mosse dal cabaret Voltaire di Hugo Ball e soprattutto dal Dadaismo, insomma alla Zurigo dei primi decenni del ‘900. Al rigore del razionalismo contrapponeva la libertà, un pizzico di irrazionalità, l’ironia, il gusto per il gesto ribelle e irridente, ed anche una certa dose di spirito anarchico. La volontà di giocare co modi di pensare definiti borghesi stimolava una strategia di capovolgimento imperniata sull’accostamento di forme e materiali inconsueti.

Lo spirito di Zurigo – Dario Verda cosa fa? Adatta quello che possiamo definire “lo spirito di Zurigo” e il dadaismo alla Duchamp e quindi il Ready-made al suo occhio critico, alla sua spiccata manualità, alla vocazione artigianale e stilistica dove l’aspetto operativo collabora pariteticamente con quello concettuale. Mette la sua bravura nel trattore a regola d’arte un materiale come il ferro al servizio dell’idea. Interviene il meno possibile. Allestisce quella che definirei una strategia dello spiazzamento, accostando forme inconsuete per la scultura però ottenute con oggetti consueti, d’uso quotidiano. Gli piace conferire dignità a manufatti d’uso comune, mettendoli al servizio di un’idea. Dal punto di vista critico, si chiarisce qui l’origine sottilmente espressionista della sua opera; la scultura come luogo di incontro tra esterno (l’oggetto) e l’interno (l’intuizione, l’idea), tra reale e invisibile.

Teatrini in piazza – A ben guardare rientrano in questo contesto anche quelle sculture che Dario Verda definisce “in nicchia”. Cioè oggetti in ferro lavorati il meno possibile così da assumere un significato evidente, ma colti del tutto frontalmente. Cioè lavorati su un solo lato, in modo che sull’altra faccia dell’opera rimanga il materiale grezzo. È se vogliamo, una riedizione in metallo e unidimensionale del teatro della vita, un po’ come nei teatrini di una volta, quelli che sostavano sulle piazze dei paesi. Anche così mette in scena le sue giocose e misurate provocazioni. Sempre ben realizzate e rifinite dal punto di vista artigianale, non un tocco in più o in meno.

 

L’altra faccia della medaglia

Non vorrei terminare prima di chiedermi da dove viene questo modo di operare. Per rispondere occorre avere il quadro completo. Ossia accostare il ferro delle installazioni e delle “sculture” di Dario Verda alla sua spiccata umanità (ci possiamo mettere anche l’invenzione di ingegnose biciclette che scivolano sulla neve, vere e proprie “snowbike”, che addirittura sono state premiate al Salone internazionale dell’invenzione di Ginevra) mai dimenticando l’arguzia nello schizzare sul foglio di carta, nel dire, nello scrivere massime e aforismi, nel verseggiare. Ed anche nel riprendere, magari aggiornandoli, proverbi, epigrafi e detti che fanno parte della nostra italica cultura con le sue radici classiche. Sempre in forma misurata: i suoi scritti al massimo sono di poche righe, fulminanti o niente. E così le sculture, a parte la Lavandaia posata a Bissone, che in verità è un omaggio alle donne attraverso una tradizione secolare fedelmente riprodotta nel bronzo.

Gioia di vivere – Anche qui si intravvede quella punta di affettuosa nostalgia che attraversa l’opera di Dario Verda. Il suo non voler disperdere quell’atteggiamento giocoso tipico dell’infanzia, quindi anche la visione libera delle cose e delle situazioni, lontana dalla versione ufficiale, quella dei grandi, della società. Mantenere quel filo d’arguzia che è il sale della vita e che tutti, nessuno escluso, ci portiamo dentro anche se magari ce lo teniamo ben nascosto. La traduzione in scultura di questi atteggiamenti si realizza in opere che si contrappongono al diffuso rigorismo borghese di facciata così ammantato di convenzioni. Le sue sculture portano impressa nella gioia di vivere quel tanto di sensuale che non guasta.

Una punta di provocazione – Dario Verda interpreta molto bene un certo spirito popolare, che forse si va perdendo ma che costituisce l’essenza, l’anima della nostra cultura. E, se vogliamo, sul piano storico va a riprendere quei vivaci movimenti culturali di fronda che si sono sempre accompagnati al perbenismo ufficiale, ai modi seri e compunti, agli atteggiamenti irreprensibili. Movimenti di persone consapevoli del proprio valore e nient’affatto disposte a rinunciare alla gioia di vivere; amanti della loro arte ma anche della buona compagnia e del piacere dei sensi, persino orgogliose del contrasto tra l’apparenza e la realtà, perché consapevoli che in tutti, al di là del modo ufficiale e serioso di presentarsi, alligna un versante provocatorio, giocoso e scherzoso, ironico e leggermente istrionico. Consapevoli che esiste sempre l’altra faccia della medaglia, e che magari quella nascosta è più interessante e piacevole di quella che si porta in giro solo perché così si usa.

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