Sergio Grandini
Corriere del Ticino, 04.12.2001

Sui singolari sentieri creativi dello scultore Dario Verda

Il parco botanico di San Grato, nel territorio urbano di Carona, si snoda verso la sommità del Monte San Salvatorei una maestosa raccolta di affascinanti visioni paesaggistiche e nel susseguirsi di immagini delle vette alpine e prealpine, Nei mesi primaverili ed estivi, l’assemblaggio di nobili conifere d’alto fusto con aiuole accuratamente rasate e vivacizzate dall’imponente fioritura di azalee e rododendri, consente al turista di fruire di magiche e profumate suggestioni.
Lungo il sentiero, quasi per impreziosirne anche gli aspetti formali e nel ricordo delle gloriose discendenze artistiche di Carona e di altri paesi di lago, mani sapienti hanno collocato una serie di 21 sculture (di grande e medio formato) di altrettanti artisti ticinesi; sculture che, fra tre anni, verranno sostituite da nuove immagini destinate a consentire ad altri scultori di usufruire di spazi attraenti e di proporre a un gran pubblico i simboli della loro creatività. Fra le opere in mostra, anche quelle del sessantacinquenne Dario Verda, autodidatta di famiglia discendente dalla stirpe dei Verda originari di Gandria e trasferitisi verso la metà del Cinquecento a Campione.
Dario Verda è attivo in una fiorente azienda di trasporti e scavi creata dal padre, negli anni trenta, a Campione. E dedica all’impresa dinamismo, sacrifici di lavoro non indifferenti e dedizione esemplare. Una vita trascorsa, quindi, sui cantieri: tra ferro e acciaio, fra metalli poveri, a contatto con macchine e meccanismi.

La grande scultura di Verda, collocata in un slargo del sentiero paesaggistico, è dedicata, come dice il titolo, a “reminiscenze di virilità”, con allusioni sottilmente ironiche e mai volgari che si avvalgono di una serie di eleganti simbologie. Il tutto nell’interpretazione del motto, coniato dall’artista: “anni di esperienza, anni di sapienza”.
Lo scultore-imprenditore ha scoperto, dunque, nell’inanellarsi degli anni d’esistenza, il piacere di predisporre, con meditati interventi di forme e con accostamenti di ombre e di luci, immagini talvolta festaiole e tal altra tormentate che nascono quasi sempre dalla sapiente utilizzazione di frammenti, rigorosamente geometrici, del profilato metallico a doppio T denominato “putrella”.
Molte di queste figure, concepite in esemplare unico, popolano il simpatico atelier di Verda, alimentando un sentimento di sottile confusione e rammentando all’uomo moderno, assillato dagli eventi farraginosi e talvolta tragici del nostro tempo, l’opportunità – come annota il facitore – di “forgiare” e di dedicarsi a salutari momenti di autocritica.

Fra le varie immagini vorrei ricordarne alcune che mi hanno particolarmente colpito e intrigato. Come ad esempio, il Rendez-vous del 1986 dedicato a due personaggi stilizzati che si incontrano e si apprestano a scambiarsi un caloroso saluto. Oppure El diablo lucifero (datato 1996) che nelle feroci simbologie dell’inferno, nei penetranti e gelidi occhi del demonio e nella perfetta armonizzazione di fattezze e di forme documenta – come scrive Verda – “la forza occulta che al peccato e lascia al momento, senza fiato”. Sornione e dallo “Sguardo insistente che mette in suggestione”, l’Hroch (datato 1996). Simpatico, nel suo “moto perpetuo”, il Tamburino sardo (1999) che rimemora Aniceto, l’anziano suonatore di tamburo della banda campionesse. E infine, lo scanzonato e filiforme personaggio (1999) che saluta scappellando con “falsa cortesia”, sembra voler criticare l’invadenza dell’uomo protesi a compromettere la sua deliziosa pace agreste.
Come si addice alla genesi di ogni sofferta raffigurazione plastica, Dario Verda antepone alla realizzazione vera e propria dell’opera lo studio analitico della forma, nel ricorso a disegni e a schizzi che gli consentono poi di trasmigrare, dalla carta alla materia, impressioni e folgorazioni e di trasformarle – manipolando sovente le forme e modificando lo scopo primordiale dei materiali – in sembianze generose di significati umani.

All’accostamento artistico, Verda accoppia quello letterario commentando le suggestioni che promanano da ogni piccola opera, attraverso brevi e graffianti riflessioni scritte. Nascono così decine di foglietti che popolano, con piacevoli contrasti, un’intera parete coperta da pannelli in legno di noce e che – come già detto più sopra – consentono all’autore, di esternare le sue opinioni sui significati palesi o reconditi del piccolo universo vivacizzato dalle sue creature. Queste in breve, le caratteristiche essenziali della missione artistica che Dario Verda asseconda con discrezione e con afflati creativi che a me sembrano forieri di successi e si futuri appaganti.

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