Dalmazio Ambrosini
dal libro 'Dario Verda Divagazioni'

Quanto stile in queste “divagazioni” in ferro

Quattro anni fa, 2010, dalla piccola Casa editrice Arte e Comunicazione è stata pubblicata una monografia dal titolo semplice semplice: Dario Verda, scultore. A ruota sono seguite due esposizioni. La prima nell’eremo-atelier di Dario Verda a Manno, località Al Cairello, dedicata per lo più agli amici, in particolare agli amici-musicisti con cui intreccia qualche bella serata non proprio così amatoriale, perché quando si impegnano suonano che è un piacere. La seconda come regalo all’amico Tonino Giannattasio nella sua piccola Galleria di Campione d’Italia. Al Cairello e Campione sono per Dario Verda quelli che si usa chiamare “luoghi dell’anima”, insomma dove uno ci ha messo un po’ di cuore nel corso della sua vita. Per questo ha ceduto alle insistenze e ha accettato di esporre al pubblico una scelta delle sue sculture in ferro. Così come qualche mese prima aveva accettato di posare una scultura in bronzo, La lavandaia, sul lungolago di Bissone, altro suo “luogo del cuore”. Onorando in questo modo tutte le donne che per secoli hanno fatto il bucato sulla riva del lago, chine nell’atteggiamento tipico della lavandaia, che lava e riasciuga nello sciacquio dell’acqua che accarezza la riva.

Questa è cronaca, la notizia sorprendente è un’altra. Nessuno, dico nessuno s’è meravigliato che Dario Verda avesse realizzato delle sculture. Anzi che da anni si dedicasse seriamente alla scultura. Eppure pochi sapevano di questa sua passione, in pratica solo gli amici delle serate musicali. Tutti tra i tanti, tantissimi che lo conoscono tra Campione e il Ticino, sia lungo i decenni del suo operare come imprenditore, sia perché da noi ci si conosce e incontra tutti, hanno detto o pensato: eh già, si vedeva che aveva dell’estro. Come fosse naturale, quasi scontato che un bel giorno Dario Verda arrivasse non con una due tre, ma con una sua organica produzione di decine e decine di sculture. Molti, prima ancora di conoscerlo come scultore, sapevano della sua abitudine a far bene le cose, che è il concetto insito nel termine latino Ars, arte. Sapevano che gli piace, che è nella sua indole curare le cose a puntino e cercare magari qualcosa di più e meglio. Di originale e non standardizzato. Quelli che lo conoscevano come autore di alcune sculture già collocate in qualche spazio soprattutto del Malcantone (pochi in verità, perché non ci ha mai tenuto a farsi pubblicità) erano come in attesa di vederne e saperne di più. E Dario con il libro e le mostre ha chiarito come stanno le cose. Sempre a modo suo. Con discrezione, finezza, stile e un tocco di autoironia. Gli piace sdrammatizzare, non prendersi troppo sul serio su questo versante dell’arte, almeno nella stessa misura in cui gli piace “fare” le sculture, cioè idearle, precisarle col pensiero e poi produrle con le sue mani. Come spunto di partenza gli basta poco, anzi una cosa sola: vedere del ferro che ha concluso la sua avventura. In disuso, dimesso, inutile, buttato là. Subito gli scatta l’idea, ecco potrei ricavarne… E già nella sua mente quel ferro buttato assume una conformazione del tutto nuova.

Così nascono le sculture. E già ci pensava, se le riproponeva da tempo, ma lavorare e dirigere un’azienda non permetteva di concretamente realizzare quel che aveva in testa. Un giorno troverò il tempo. Quel giorno è venuto, dapprima qualche ora nei fine settimana da dedicare a questa sua passione evidentemente incontenibile. Alla fine degli anni Ottanta sono arrivate le primissime sculture. Poi ha continuato ad un ritmo gradualmente più intenso, e finalmente, conquista degli ultimi anni, qualche ora (quasi) tutti i giorni. Sculture, anzi non solo sculture all’interno di un modo di vivere nel quale trova sempre più spazio una visione sottilmente culturale della vita. Gli sono sempre piaciuti i detti, gli aforismi.

Gli dà soddisfazione la capacità di creare dei concentrati di significato, magari recuperando un po’ di latino imparato a scuola. Gioca sottilmente con l’ironia, sfiora con eleganza il doppio senso, fa capire quel tanto che basta, con finezza, senza appesantire le cose. Coinvolge in un’idea, fa emergere delle emozioni, trae dalle parole, come dai ferri, qualcosa di autentico per quanto nascosto dietro l’evidenza, quindi ancora più prezioso. Divertire e divertirsi facendo sorridere e un po’ anche pensare. Con la scultura certo, ma anche con la scrittura, comprese brevi poesie in dialetto, e naturalmente la musica, suonata ed anche scritta. Qualche bel ritmo, qualche schietta canzone da suonare e cantare nelle serate al Cairello, che non finirebbero mai. Insomma uno stile ti vita.

Anche con la scultura, come s’è potuto vedere in questi anni, le soluzioni non sono mai scontate. Le vede già nel materiale, nel ferro e nella capacità di lavorarlo, basta saperle scovare e realizzare. A noi che lo guardiamo vien da dire: eh già, è vero, come non averci pensato … Dario Verda ci ha pensato, continua a pensarci ed ogni volta ritorna con opere inattese, sorprendenti, inconfondibili, inequivocabilmente sue. Già, questa è una scultura di Dario. Perché ha in sé quel misto di divertimento, provocazione, suggestione, allusione, capacità e bravura tipiche di Dario Verda. All’inizio, con quel primo colpo d’occhio sul materiale c’è sempre un pensiero, un’idea che si precisa strada facendo e diventa un progetto. Poi arriva il tempo del fare, fi dare forma concreta a quell’idea. È il momento della competenza, della capacità di usare in modo intelligente le mani per smontare, comporre, modulare, assemblare, intervenire quel tanto che basta, niente di più. E poi realizzare e azionare meccanismi, infine perfezionare le cose come si deve (ecco l’Ars dei latini, la Techné dei greci, insomma il recupero di un modo classico si operare) concludendo le operazioni che concernono la scultura in metallo, dalla lisciatura alle varie patinature.

Talvolta bastano quattro tocchi ed ecco il risultato compiuto e corrispondete all’idea; tal’altra qualcosina in più, sempre nella direzione di ottenere qualcosa di originale, di propositivo, spesso di sorprendente. Il ferro nelle mani di Dario Verda riscopre nuova giovinezza, un’infanzia giocosa quando era giunto alla fine, ormai inutile. Ritorna a riproporsi, stavolta non in senso funzionale, operativo, ma metaforico. Diventa qualcos’altro che ha a che vedere con la vita, gli atteggiamenti, i modi di essere. Con le emozioni e le sensazioni. Con il sorriso, lo spunto giocoso, qualcosa che mette di buonumore. Lo conferma il fatto che talvolta alle sculture affianca un detto, un aforisma, qualche verso ben congegnato, attento più alla verità delle cose che alla rima. La scrittura collabora con la scultura nel far capire i sempiterni temi dell’attrazione, della simpatia, dell’amicizia, dell’approccio amoroso. Sempre in punta di scalpello e forgia, di penna e di ritmo: la leggera insinuazione, l’allusione, il corteggiamento appena accennato, l’atteggiamento invitante, insomma i rituali dell’avvicinamento e della confidenza, della conquista amorosa, gentile; quel gioco di fioretto fatto a sottintesi che si instaura tra uomo e donna ad ogni età e sotto tutti i quarti di luna. Sempre con un’espressività leggera, allusiva, giocosa, accattivante, lievemente provocatoria, persino elegante. Mai greve, nella scultura in ferro come nella scrittura, nella musica e nella parola come nella vita.
Con stile.

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